Ci sono cose che piú che brutte son malfatte, piú che parlarne male sarebbe meglio dimenticarle. Ecco, Ghost in the Shell 2.0 ci va molto vicino.
Per gli ignari: si tratta di una versione “rinnovata” in un bagno digitale del celebre lungometraggio del 1995. Attenzione, non è un(a specie di) remake, come invece il cosiddetto Rebuild of Evangelion! Il film classico non è stato rifatto da capo, ma solo rimaneggiato digitalmente.
E a guardar bene le modifiche non sono neanche tantissime. Distinguiamo le sequenze del “nuovo” film in tre insiemi. Il primo: le parti lasciate intatte. Il secondo: quelle che hanno subíto degli interventi, ma minimali: variazioni nelle sfumature, nelle luci, nei colori e potenziamento dei dettagli. Ecco, questi due insiemi coprono una buona fetta di Ghost in the Shell 2.0, forse anche il 90%. E poi ci sono le (poche) scene rifatte integralmente. In digitale 3D. Che non sono bruttissime; anzi, alcune hanno un respiro scenico notevole (esempio: la carrellata iniziale giú tra le grandi torri della città). Peccato che: il fotorealismo digitale coi personaggi umani, come dovrebbe essere notissimo, al giorno d’oggi (in futuro, chissà) fa piú disastri che altro; d’accordo, qui i personaggi sono cyborg, ma il loro cómpito e soprattutto il senso con hanno nel film è di essere indistinguibili dagli umani. Ma mi spieghi come può funzionare, se Motoko Kusanagi, ambigua creatura in bilico tra umano & artificiale, ora mi diventa un orrido pupazzo digitale sintetico al 100%?
Non solo. Le scene in 3D digitale sono occasionali e semi-gratuite, buttate in mezzo tanto da fare a pugni (eufemismo!) con tutto il resto del film, mantenuto nel “vecchio” 2D. Il contrasto è troppo troppo troppo forte, e la suspension of disbelief se ne va a quel paese.
E lascia particolarmente perplessi vedere un uso cosí grossolano e malmirato del digitale da parte di una (Oshii+Production I.G) delle tre realtà giapponesi che, in materia, hanno sempre dimostrato grande intelligenza (le altre due sono lo Studio Ghibli e la Gainax).
Altro contrasto tristemente stridente… Da una parte gli spazî cibernetici, in cui Motoko & compagni s’immergono, sono stati rifatti ex-novo: erano in digitale integrale nel film del 1995, e ora sono stati potentemente ridisegnati. Ok, per certi versi ci può stare. Peccato che altre (troppe!) cosette, a cominciare dalle riprese soggettive dagli occhî artificiali o in generale tutto il tecnoscape del film sia rimasto tale & quale. In molti punti possiamo ancora apprezzare (e stupirci) di come Ghost in the Shell, piú di dieci anni fa, abbia saputo preconizzare cosí tanto dell’oggi (a cominciare dal tecnocontrollo pervasivo e invasivo), ma in altri il “nuovo” Ghost in the Shell, con i suoi ritocchi posticci incollati malamente, rischia a ogni piè sospinto di smascherare suo malgrado l’obsolescenza dell’immaginario che minaccia il “vecchio” film.
È l’intero senso dell’operazione che è da discutere. Non so se il compito di un film di fantascienza (o della SF in genere) sia di (cercare di) prevedere il futuro. C’è chi ne dubita, c’è chi lo nega. Sicuramente la SF immagina un futuro, si pone come segno di un futuro immaginato in una data epoca. Nel nostro caso: il 1995, l’anno d’uscita del primo Ghost in the Shell animato. Il suo è un futuro ancora da venire (2029!), popolato di cyborg ma immaginato con cabine telefoniche, collegamenti via cavo e un cyberspazio verde come i vecchî monitor abitati dal DOS. Riverniciarlo col digitale tredici anni dopo lasciando intatto il corpo proprio del film difficilmente può funzionare. A maggior ragione, poi, se la verniciatura propone un’estetica troppo lontana da quella del materiale su cui si va a lavorare. È chiarissimo l’intento, a partire dalla scelta dei colori (caldi e densi) di riavvicinare il vecchio film al nuovissimo Innocence. Ma la distanza rimane, incolmabile, e la tensione è gravemente irrisolta. Il primo Ghost in the Shell, nei colori, nelle inquadrature, nei tempi e cosí via, era estremamente rigoroso e sobrio: non freddo, ma calcolato. Era il precipitato ultimo di un’estetica quasi monocroma che Oshii aveva elaborato negli anni, partendo da Tenshi no tamago e passando per il secondo lungometraggio di Patlabor. Una struttura astratta su cui son stati appiccicati degli innesti barocchi un po’ pretestuosi, ecco cosa risulta Ghost in the Shell 2.0. Dunque viva il vecchio film, cosí semplice cosí naturale e privo di inutili fronzoli? No, piuttosto: viva il vecchio film, con la sua lucida coerenza visiva e narrativa. E viva anche Innocence, vera esplosione barocca, eccessivo e debordante, eppure elaboratissimo sino al dettaglio nella sua costruzione. E abbasso Ghost in the Shell 2.0 che dei due film tenta di proporre un ibrido già difficile nelle intenzioni e, ahimé, assai malriuscito nei fatti. Anche perché, dopotutto, il “vero” rifacimento di Ghost in the Shell era proprio Innocence, non certo questo inutile 2.0…
Note sparse.
Le modifiche più palesi sono quelle visive, ma non sono le sole.
Leggo in rete che sono stati modificati dei dialoghi. Non ho notato variazioni significative, ma non è detto che non ce ne siano: purtroppo, di Ghost in the Shell, ho visto ancora troppe volte l’edizione italiana (tristemente passata da quella inglese) e troppo poche quella giapponese.
Modifiche negli effetti sonori. Qui è stato fatto un buon lavoro. Ma non sempre. Ad esempio (mi si perdoni l’otakuismo… ma lo è?): il movimento delle zampe del ragno-carrarmato. Una (la?) scena-madre del film, dove gli effetti sonori hanno una parte determinante, nonché piuttosto delicata. Non mi puoi togliere quel sottile ronzio che accompagna lo spostamento delle zampe del ragno e metterci, al posto, un clangore rozzo e pesante di meccanismi…
Fondalmente, poi, è la sostituzione di un doppiatore. Di che personaggio? Mi limiterò a dire che un doppiatore è stato sostituito con una doppiatrice. Tra l’altro, si tratta di Sakakibara Yoshiko (榊原良子), voce che ho sempre apprezzato molto. Suoi i ruoli di Kushana in Nausicaä della Valle del Vento e soprattutto della Regina Nehellenia in Sailor Moon. Ma sentirsi una tipica voce da “regina cattiva” interpretare proprio quel personaggio di Ghost in the Shell… be’, l’effetto è sicuramente curioso, ma a tratti in bilico tra lo sgradevole, l’imbarazzante e il poco credibile. Specie tenendo presente il doppiaggio del ’95. Si tratta sicuramente di una modifica che ha un bel peso (detto senza ironia!) anche su tutto il significato simbolico del film stesso. Che lancia la sfida per interessanti elucubrazioni. E che sicuramente farà la gioja delle studiose femministe di anime nelle università U.S.A.. Ma io, personalmente, me lo si lasci dire, non l’ho apprezzata granché… Come tutto il Ghost in the Shell 2.0, del resto…