Piú di due anni sono passati, uno sfacelo di tempo, e ancor piú tale per l’animazione giapponese. Piú di due anni di tempo, due anni che segnano la differenza e donano a questo secondo capitolo del “nuovo” Evangelion un sapore inaspettatamente classico. You can (not) advance, recita il titolo, e c’è davvero da stupirsi di quanto il design di Sadamoto, cosí chiaro e pulito, ora sembri retró, e cosí le atmosfere, e gli stessi tempi narrativi, col loro alternarsi di pieni e di vuoti, di tempi densi e momenti desolati.
Sono bastati solo due anni a rivestire di una patina d’antico il “nuovo” Evangelion.
E pensare invece a quanto era nuovo il “vecchio” Evangelion quando, ormai quindici anni fa, assieme a un pugno d’altri pochi titoli, annunciava che molto stava per cambiare (nel bene come nel male) nel modo di fruire l’animazione televisiva in Giappone; e quindi l’animazione tutta del Sol Levante.
Evangelion impostava un discorso, un’estetica, rinnovava i clichés e gli schemi narrativi, e le mode, imponeva i suoi ed esercitava il suo influsso ben al di fuori del genere putativo d’appartenenza, l’animazione robotica. Di imitatori ed epigoni ne avrebbe avuti parecchî, ma in quel 1995 era ancora qualcosa di nuovo, allora, quasi qualcosa di solitario. E solitario ritorna a essere oggi, in questa fine di primo decennio degli anni 2000. Si ripresenta trionfale sui grandi schermi quando l’onda lunga del post-evangelion s’è ormai esaurita, svanita.
È cosí che la creatura di Anno, Sadamoto e compagni sembra aver poco da spartire con quelle che sono le tendenze attualmente dominanti di tanta animazione giapponese: un’animazione infarcita (intasata?) da camerierine & studentesse multicolore che, con occhî sempre piú grandi e luccicosi, saltellano in una quotidianità dall’esile trama; o impegnata a declinare a modo proprio l’attuale moda globale dell’occultismo e del vampirismo pop; o che si lancia negli sperimentalismi di studî come Madhouse e 4°C, o di autori come Yūasa Masaaki, attentissimi a coniugare (o superare ) l’estetica nipponica con stimoli internazionali e d’avanguardia.
Ecco, il “nuovo” Evangelion, a parte qualche smagliatura, appare davvero assai lontano da tutto questo. E non è necessariamente un male, anzi.
Obiettivamente, non ci sarebbe molto da aggiungere su questo secondo capitolo, You can (not) advance. Prosegue fedelmente e linearmente sulle basi gettate due anni prima dal precedente You are (not) alone. Cosa che in parte rassicura, che in parte un po’ delude.
Rassicura, perché è ancora garantito in pieno il formidabile impatto tecnico e visivo, profuso anche nei momenti piú d’atmosfera e sospensione; ma soprattutto, com’è logico, nei concitati e gargantuani combattimenti e scene d’azione che tanta parte costituiscono delle quasi due ore della pellicola. Azione che, e questo è grande merito, non si riduce quasi mai a mera ostentazione di risorse tecniche e di budget, sa andare oltre: c’è fantasia, a volte sbrigliata, c’è orchestrazione dei dettagli minuti, c’è lavoro concettuale, c’è notevole sensibilità estetica. Ne risulta un amalgama assai originale tra un barocchismo sfrenato e un’elaborazione algida e controllata.
Delude, un po’. Perché Evangelion, già nel decennio passato, era nato con l’intento programmatico di stupire anche ad altri livelli e a piú riprese l’aveva fatto, a suo modo, a volte verrebbe da dire suo malgrado, deludendo molti spettatori ed esaltandone altrettanti, ora riuscendo e ora fallendo. Lascia un po’ spiazzati dunque che You can (not) advance non segni sterzate radicali o decisive rispetto a quanto visto in You are (not) alone, se non un ulteriore potenziamento dell’apparato tecnico-visivo e un raffinamento delle visioni che propone. Già dopo qualche decina di minuti dall’inizio, si intuisce che in questo secondo capitolo non ci saranno sorprese dirompenti, perlomeno non come furono ai tempi del “vecchio” Evangelion. Le regole del gioco non vengono fatte saltare. Forse è tutto rimandato al terzo capitolo, forse no.
Ma da un altro punto di vista, non è poco ciò che ritorna a galla dell’Evangelion che fu. You are (not) alone riproduceva al millimetro, identiche, molte sequenze della serie televisiva; in You can (not) advance è piú una questione di vago sapore. C’è una forte tendenza al melodramma e al patetismo (vero tallone d’achille, invero, di molta produzione giapponese, per non dire dell’Asia Orientale in generale): i personaggi e le loro emozioni, e gli oggetti simbolici in cui s’incarnano piú volte vengono presi e si fan prendere troppo sul serio, e tra l’altro proprio quando piú rischiano di mostrare il filo allo spettatore. Molte svolte narrative sono facili da calcolare, anche per chi di Evangelion non ha visto molto altro, e per questo perde mordente l’alternarsi (melodrammatico, appunto) tra la costruzione dei legami tra i personaggi e la loro successiva demolizione a colpi di efferatezze varie; e anche in quest’ultimo caso, cioè nella messa in scena di sequenze che si vorrebbero forti e disturbanti, la mano troppo calcata sui contrasti dissacratorî rischia di mostrare a piú riprese l’intento dell’autore proprio laddove dovrebbe invece restare celato.
Non solo. Narrativamente You can (not) advance si presenta molto meno compatto rispetto a You are (not) alone. In piú momenti si percepiscono degli scricchiolî. Ci sono problemi di tempi e di ritmo, di equilibro. La costruzione dei personaggi, cui dovrebbe essere dedicata soprattutto la prima metà del lungometraggio, è rapida e concisa, forse troppo, quasi scarna, abborracciata; e di rimando sembrano cosí ancora piú lunghe le scene d’azione. Troppo lunghe? Sono il piatto forte, le si aspetta famelici per saziarsi con lo stupore che sanno donare, ma a un certo punto subentra una sorta di senso d’eccesso.
Questi due punti, patetismo e ipertrofia del gigantismo, riportano rispettivamente proprio ai tratti piú spiccati del “vecchio” Evangelion, rispettivamente alla serie televisiva, e a quei lungometraggi culminati nella criptica orgia di The End of Evangelion.
La prima cosa, ovvero la tendenza al melodramma, l’apprezzeranno gli spettatori che già col “vecchio” Evangelion si erano fatto scuotere e commuovere dai tormenti relazionali dei suoi giovani personaggi; mentre chi lo vedeva come un gioco un po’ troppo facile, vedrà di sorvolare anche questa volta.
Per quanto riguarda invece il debordare del gigantismo apocalittico… la forza è innegabile, e le ultime sequenze di You can (not) advance sono una delle piú riuscite concretizzazioni su schermo, in animazione, della titanica presenza di creature superiori all’umano, dal respiro quasi metafisico; gli manca però quella forza scardinante che aveva eretto The End of Evangelion a parodia tragica e grottesca della serie televisiva.
Ancora assenti, invece, e proprio del tutto, eventuali metariferimenti alla cultura otaku, alla natura di cinema d’animazione dell’opera, o all’otakuismo proprio del Giappone. Il nuovo Evangelion sembra aver rinunciato totalmente a inglobare nel suo mondo un qualche discorso dialogico col proprio pubblico, o metafilmico che dir si voglia; stando di conseguenza al riparo da certe derive moraliste che rischiavano di infettare l’Evangelion che fu.
You can (not) advance, come e anche piú che You are (not) alone, lungi dall’impegnarsi in diatribe di stampo sociale con(tro) eventuali pubblici di riferimento, diatribe che rischiano la prigionia dell’attualità, vuole solo raccontare, sullo sfondo di visioni barocche e apocalittiche, una semplice storia di isolamento e alienazione dal vivere. Che poi lo faccia bene o male, questo è un altro discorso. Ma il suo intento, proprio nella sua semplicità, non è comunque da poco.
You can (not) advance…
04 venerdì Giu 2010
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