Recentemente guardo pochissimi anime.
Recentemente ho visto Madoka Magica (魔法少女まどか☆マギカ) e, che dire?, ho fatto più che bene a vederlo.
Ho voluto prendere qualche appunto, ma alla fine gli appunti si sono spontaneamente trasformati in un commento articolato, per quanto breve breve. Era da tanto che non scrivevo qualcosa del genere! Il commento, più che su Madoka in sé, è su Madoka entro il suo genere, com’è forse inevitabile.
[sempre in tema di recuperi: ho visto anche La malinconia di Suzumiya Haruhi, ma visto che preferisco scrivere di cose che gradisco, non ne scriverò]

Cosa è e cosa non è Madoka Magica.
Madoka Magica non è una decostruzione del genere mahō shōjo (魔法少女: quello delle maghette, per intenderci). Tutto ciò che di terribile mostra Madoka Magica lo si può già trovare, per chi li ha guardati bene, negli anime majokkeschi degli anni Novanta, che siano Sailor Moon, Ririka SOS, o Pretty Sami, per dire i primi nomi che possono venire in mente (ma anche Rayearth, per quanto rientri parzialmente nel genere): personaggi che muoiono senza ritorno, amene realtà che si rivelano oscure, echi lovecrafiani, personaggi secondari e/o protagoniste che si immolano nell’estremo sacrificio per il bene comune, tanta tanta sofferenza, e infine la celebrazione dell’amicizia come bene supremo in un Mondo ostile. E così via.
Tutto questo lo s’è già visto e rivisto.
Il copione è noto e stranoto.
Le maghette ne hanno già passate di ogni.
Quel che ora cambia non è il cosa, ma il come.
Madoka Magica è, quindi, il genere mahō shōjo finalmente depurato e infine sublimato. Finalmente depurato da tutte le necessità che comporta il rivolgersi al pubblico televisivo infantile da spremere economicamente.
Depurato quindi dalla serialità con decine e decine, se non centinaia, di puntate, e chi se ne importa se oltre la metà sono riempitivi: ora la vicenda è contenuta e priva di sbrodolamenti nella compattezza di dodici episodî dodici.
Depurato dalla necessità di vendere giocattoli rosa e plasticosi: in Madoka Magica di gadget luccitintinnanti da far vomitare alle fabbriche nell’ordine dei milioni non ce ne sono.
Depurato dalla necessità di umorismo e comicità perché i piccoli spettatori si devono divertire e non guardare anime troppo serî: in Madoka Magica si ride poco, anzi per niente, e una volta tanto, tra tanti anime che ti infilano l’umorismo come una gamba di traverso, è anche una boccata d’aria.
Depurato dalla necessità di una grafica semplice e di una regia elementare, sempre perché anche gli spettatori più piccoli possano capire.
Madoka Magica è il genere mahō shōjo infine sublimato. Sublimato nella festa visiva che è il suo lato grafico; nella delicatezza del tratteggio dei primissimi piani; nei giochi di colori ora caldi e ora gelidi, ora delicatamente pastellosi; negli sfondi in cui paesaggi cittadini si fanno barocche cattedrali; nel delirio immaginifico e sperimentale delle realtà distorte create dalla Streghe; nella raffinatezza della sua colonna sonora.
Madoka Magica vive nella sua forma (il come), dove tale è il lavoro svolto dallo staff che la storia (il cosa), pur costruita con scaltrezza e gradevole nel suo dispiegarsi implacabile, non è ciò che più conta.
Madoka Magica, in tal senso, spicca come un singolare unicum: figlia, nel cosa, di tutte le ragazzine magiche che l’anno preceduta, sin dai lontani anni Sessanta; eppure al contempo orfana per la generosità del suo come, per il generoso dispiegarsi della sua visionarietà. Un’anomalia paradigmatica priva, a tutt’oggi, che io sappia, di serî successori. E forse è meglio così. Difficile imitare un simile risultato.